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Nei periodi più duri che abbiamo passato recentemente, cucinare ha saputo unire le persone risvegliando in loro sentimenti di vicinanza: come una vera terapia, per far fronte insieme alla tempesta.

Abbiamo visto come nell’ arco degli ultimi sei mesi siano cambiate molte cose e soprattutto di come queste siano cambiate radicalmente e in fretta.
Non sempre i cambiamenti sono accolti in maniera positiva; a volte si assiste impotenti di fronte a una situazione che muta (come la diffusione della pandemia), altre volte invece partecipiamo attivamente affinché questi cambiamenti avvengano.

Negli ultimi tempi siamo stati bombardati da parole come “accettazione” o “resilienza”; anzi si potrebbe dire che dopo “petaloso”, queste siano le due parole di cui si è liberamente abusato fino ad oggi. È necessario però soffermarsi e analizzare per un attimo il reale significato che un processo di accettazione può avere.

Affrontare il cambiamento

L’accettazione di un cambiamento è in realtà uno sforzo non indifferente; questo perché il “cambiamento” di per sé implica lo scontrarsi con una serie di fattori che si trasformano, mutano, diventano qualcosa che prima non erano, e forse – a cose avvenute – prima non si stava poi così male. Quante volte nel colloquiale si sentono frasi quali “si stava meglio quando si stava peggio”, come a sottolineare che piuttosto che affrontare un cambiamento, si è disposti a vivere in una condizione che se pur non idilliaca, quantomeno è certa, approvata e soprattutto conosciuta – e quindi a noi familiare.
Il verbo cambiare però non sempre porta con sé brutte notizie o è presagio di scenari catastrofici: le cose a volte possono anche cambiare per il meglio, o possono comunque portare a qualcosa di diverso. E più precisamente, il famoso “lato positivo” è ciò che abbiamo sempre cercato e ricercato per poter trovare la forza di sostenere e gestire la situazione, con costanza e fatica encomiabili.

La pandemia da COVID-19 difatti, non ha di certo chiesto il permesso prima di entrare e stravolgere le nostre routine, tutt’altro. Tuttavia, superato l’iniziale momento di stravolgimento e aver preso coscienza (quindi aver realizzato cosa fosse in nostro potere fare) del momento presente, ecco che ognuno di noi ha personalmente e individualmente iniziato il proprio processo di accettazione di fronte al cambiamento. Questo importante processo di crescita è avvenuto all’interno delle nostre case, portando così una rivoluzione nel nostro modo di abitare e vivere gli spazi domestici in un modo un po’ anomalo e forzato: non più solo per poche ore la sera al rientro dal lavoro, ma per intere settimane consecutive e senza sapere quando questa condizione avrebbe avuto termine.


Senonché, (fatta eccezione per chi per cause di forza maggiore ha dovuto improvvisare una sistemazione perché impossibilitato a rientrare nel proprio paese), noi tutti ci siamo ritrovati a riscoprire la nostra casa.
Le mura domestiche sono passate dunque dall’avere un significato puramente di dimora a un’accezione che include una pluridimensionalità: ogni stanza aveva la sua funzione e abbiamo potuto fare esperienza di come tra tutte, la cucina sia stato lo sfondo di momenti di consolazione, piccole gioie, solidarietà, famiglia.

Cucinare, vera e propria terapia

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Tra le innumerevoli conference-call che hanno costellato le giornate di molti lavoratori in smart working, ci sono stati momenti di pura creatività, atti in cui l’arte del cucinare ha saputo unire le persone risvegliando in loro sentimenti di vicinanza: l’ingrediente segreto per far fronte alla tempesta. Anche chi non ama cucinare ma è ugualmente una buona forchetta, i fornelli, i forni, tutti gli elettrodomestici sono stati validi alleati contro la noia, la disperazione e la preoccupazione.

Molte persone hanno l’hobby di cucinare quando si sentono tristi o giù di morale: è infatti confermato dalle neuroscienze che la memoria olfattiva associata al gusto, sia il senso maggiormente in grado di rievocare ricordi impressivi e intensi in pochissimi secondi, avvolti da una fortissima componente emozionale: questo è dovuto al collegamento con il sistema limbico (in cui sono coinvolti ippocampo e amigdala), che svolge una funzione centrale nella regolazione emotiva.


Inoltre il fatto di impegnare la mente in un’attività che prevede la pianificazione di diverse fasi (il leggere una ricetta, impastare, usare le mani per creare qualcosa di buono), ha un effetto rilassante, in grado di diminuire lo stress e prevenire cali emotivi.


La creazione in cucina è infatti una delle massime forme di espressione del sé, un’estensione diretta del nostro estro che può assumere molteplici forme: da una torta a una teglia di pizza fumante appena sfornata, fino a una pagnotta che pian piano prende forma da sotto il canovaccio. Il pane soprattutto è stato assoluto protagonista delle nostre tavole in periodo di lockdown; e come mai proprio il pane? La psicologa e psicoterapeuta Lucia Montesi spiega che il più antico alimento universale da sempre presente in quasi tutte le tradizioni, nasce da pochi semplici gesti che uniscono ingredienti di base come l’acqua la farina e il lievito. Il fatto dunque di sapersi procurare il cibo garantisce la sopravvivenza e di conseguenza restituisce sensazioni di maggior tranquillità e sicurezza.

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In conclusione sarebbe dunque bene mantenere queste abitudini che abbiamo avuto occasione di (ri)scoprire, come il piacere di riproporre ogni tanto una vecchia ricetta della nonna o cimentarsi nella scoperta di nuove per tenere alto lo spirito in un atto conviviale di vicinanza.